Un figlio non è un traguardo da conquistare, ma una vita da accogliere.
Eppure, chi desidera diventare genitore si confronta spesso con paure anticipatorie: “Sarò all’altezza? Come cambierà la mia vita? Riuscirò a sostenere questa responsabilità?”.
Questi timori, se non riconosciuti e affrontati, finiscono per ostacolare persino la fertilità, creando un clima di tensione e insicurezza.
A fare la differenza è l’intento: quando è chiaro e consapevolizzato, si contrappone alle paure e le riequilibra, trasformando l’incertezza in un percorso naturale.
Analizzare l’intento è molto più di un momento di autoanalisi: è un vero e proprio processo di trasformazione, capace di infondere maggiore fiducia e sicurezza.
“Perché generare un figlio?” è la domanda centrale.
Ognuno risponde in base a proprie ragioni, spesso intrecciate a fattori biologici, culturali, emotivi e familiari.
A volte, il desiderio nasce per colmare un vuoto interiore, attribuendo al bambino un ruolo salvifico che però non gli appartiene.
Altre volte ci si adegua a un copione sociale, senza indagare il bisogno reale che ci muove.
C’è chi vede nella genitorialità un modo per completare l’immagine di sé, ma in realtà si tratta di un percorso che dovrebbe sorgere da una consapevolezza profonda, non dalla necessità di compensare mancanze.
Quando l’intenzione è più autentica e matura, emerge invece la volontà di dare continuità alla vita, di esprimere la propria eredità affettiva e culturale, di abbracciare una delle esperienze più profonde di cambiamento.
Le paure fanno parte del viaggio verso la genitorialità: la paura di non essere abbastanza, di perdere libertà, di non disporre di risorse sufficienti.
Tuttavia, un intento ben metabolizzato ridimensiona l’ansia e la tensione, lasciando più spazio a una disposizione mentale serena e, di conseguenza, a un terreno più favorevole anche dal punto di vista biologico.
Quando l’intento è limpido, diventa la bussola che orienta la strada, anche nei momenti più difficili.
La Procreazione Naturalmente Assistita (PNA) non si limita a offrire strategie o tecniche per favorire il concepimento, ma invita a un’analisi profonda del proprio desiderio di diventare genitori.
Significa interrogarsi sulle ragioni che ci muovono, distinguere tra un bisogno e un’autentica vocazione, e riconoscere la disponibilità a prendersi cura di una nuova vita.
“Non pensate al raccolto, ma solo alla semina giusta.”
Questa frase, attribuita a T.S. Eliot (1888-1965), poeta, drammaturgo e critico letterario anglo-americano, Premio Nobel per la Letteratura nel 1948, si ricollega al suo invito a concentrarsi sulla bontà dell’azione piuttosto che sull’esito, un tema che emerge con particolare chiarezza nel terzo canto di “The Dry Salvages”, parte dei suoi Four Quartets.
Eliot ricordava l’importanza di un agire dettato da intenzioni autentiche, libero dall’ansia sul risultato finale.
Un figlio non è, dunque, il prodotto di un bisogno da soddisfare o il rimedio a un’insicurezza, ma il frutto di un’intenzione profonda e metabolizzata, capace di fare emergere la vera natura della genitorialità: un atto generativo dove la sicurezza nasce dall’ascolto di sé e la paura lascia spazio a un’accoglienza autentica.
Dr Domenico Oliva
ostetrico e direttore di PNA